Lorenzo Bettoni ha rivestito da giovanissimo la carica di addetto stampa della Sangiovannese fino al 2014, è poi volato a Londra tre anni per imparare il mestiere di giornalista che tutt’ora esercita a Torino per ilbianconero.com sito che segue da vicino la Juventus ed il Corriere di Torino. Ci ha contattati in queste ore per pubblicare un suo personale pensiero sul “Presidente”, come ero solito chiamarlo ogni volta che si sentivano. Parole toccanti, che provengono dal cuore di una persona che voleva tanto bene al compianto ex dirigente azzurro:
“Questo articolo qui non mi sarei immaginato di doverlo scrivere, Graziano. Non avrei mai voluto scriverlo. Non ci credo. Quando ho saputo che stavi migliorando ho pensato tante volte a quando tutto questo sarebbe finito. A quando sarei sceso a San Giovanni e ti avrei trovato per il corso e ci saremmo abbracciati forte, come facevi con me e con tutti. Sapere di non poterlo più fare mi devasta. Dopo quello che è successo a Patrizia avremmo anche pianto. Sarebbe stata la prima volta perché con te si rideva sempre. Ho iniziato a scrivere grazie a te, che mi chiamasti alla Marzocco. Non avevo nemmeno 20 anni ma tu avevi più entusiasmo di me e di mille ragazzini messi insieme. Non avevi paura di nulla. Internet, mail, avevi voglia di conoscere mondi nuovi, eri sempre a cercare qualcosa di diverso, qualche novità, per questo a stare con te non ci si annoiava mai. Eri trascinante. Ti incazzavi anche, sì, ma dopo un secondo tornavi a sorridere con quel sorriso a mezza bocca che non mi scorderò mai. Ci sentivamo spesso, parlavamo tanto. L’ultima volta poco più di un mese fa, poco prima che iniziasse questo schifo. “Graaaande Lorenz”, rispondevi sempre così. E io ti chiamavo sempre “President”. Anche se ufficialmente non lo eri più da tempo, per me eri sempre il Presidente. Ultimamente tutte le telefonate finivano nello stesso modo: “Oh Graziano, ti aspetto a Torino, non farmi incazzare e vieni a trovarmi, andiamo allo stadio insieme”. “No ma io il calcio non lo guardo più”, mi rispondevi. Non ci credevo, ma non te l’ho mai detto. Poi continuavi: “Semmai quello femminile con Attilio, però dai a Torino una volta ci vengo volentieri”. E poi mi raccontavi duemila cose. Quando mi scrivevi “Grande amico mio” sotto ai miei stati di Facebook ero contento due volte: prima perché mi chiamavi amico, poi perché se ti era piaciuto vuol dire che era una cosa intelligente, come te. Mi piaceva pensare che tutti i passettini in avanti che facevo nel mio lavoro ti avrebbero reso orgoglioso e tutte le volte che c’era una novità non vedevo l’ora di chiamarti per dirtelo. Mi piaceva troppo stare ad ascoltare le tue storie. Proprio su Torino, poco tempo fa, mi raccontasti di quella volta che pagasti per stare due giorni in città dopo che eri andato in pensione, pagando hotel e ristoranti a tutti gli amici. “Andammo in questo ristorante – mi dicesti sempre con quel sorriso – e il cameriere ci disse subito: ‘Signori, qui Cavour non c’ha mai mangiato’”. A scriverlo e leggerlo, però, non fa ridere come quando lo dicevi te. Tante volte ho camminato qua in centro pensando a quale potesse essere quel ristorante. Mi sarebbe piaciuto scoprirlo con te quando saresti salito per andare allo stadio insieme. Era impossibile non volerti bene, Presidente. Io te ne vorrò per sempre. Ancora non ci credo. Grazie di tutto”.